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La guerra in Libano da questa parte del confine

Le parole dell’operatrice di pace israeliana Edna Angelica Calo Livne che non perde la speranza: “L’Iran supporta Hezbollah e Hamas, ma ben vengano due Stati per due popoli”

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Dopo la morte del leader di Hezbollah, Nasrallah, sono due le domande più ricorrenti: se e quale sarà la reazione dell’Iran sul campo e quale sarà la prossima mossa di Israele. A spiegare gli obiettivi di Tel Aviv è stato il portavoce delle Forze armate israeliane (IDF), Daniel Hagari. «Non è finita, Hezbollah ha altre capacità», ha chiarito Hagari, ricordando la priorità resta la liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas da quasi un anno e il ritorno in sicurezza nelle proprie abitazioni per i cittadini israeliani che vivono nel nord del Paese. Proprio come Edna Angelica Calo Livne, educatrice, operatrice di pace, insegnante presso l’Università della Galilea, almeno finché l’ateneo poteva essere aperto (ora c’è un campus ad Haifa).

Da mesi, invece, il lancio di missili dal Libano ha costretto alla chiusura. Lei stessa vive con il marito in un bunker, che li protegge dal continuo lancio di missili che provengono dal Libano, dal cui confine sono separati da circa chilometro. Si trovano infatti a Sasa e dopo l’uccisione di Nasrallah, in poche ore le sirene hanno risuonato quasi ininterrottamente.

«È stata una giornata inquietante, solo a Sasa le sirene hanno dato l’allarme 7 volte. Un missile, intercettato da iron dome, si è disintegrato e cadendo ha distrutto un’auto appena fuori dal nostro bunker. Ma l’allarme riguarda tutto il Paese» ci racconta quando la raggiungiamo al telefono. «La situazione è precipitata nelle ultime ore, ma è dall’8 ottobre che viviamo così, dall’indomani del massacro del 7 ottobre. Hezbollah non ha mai smesso di attaccare e oggi un missile diretto a Tel Aviv è stato lanciato persino dagli Houti in Yemen a 2.000 km – prosegue Edna – Sono tutti ‘sudditi’ dell’Iran che, invece inviare cibo a popolazioni in difficoltà, manda loro le armi e li esorta a colpirci».

Edna e suo marito, però, rimangono a Sasa: «Nel bunker abbiamo portato l’indispensabile, come un letto dove dormire. Viviamo al buio. Per fortuna, dopo un primo periodo in cui non potevano raggiungerci, ora i camion ci riforniscono e tramite la cucina del kibbutz prepariamo anche per gli altri sfollati: prima eravamo in 450, siamo rimasti in 40. Anziani e bambini sono stati allontanati, era troppo pericoloso. Qui abbiamo un gruppo di combattenti che rimane a nostra protezione, perché il rischio era un altro 7 ottobre, ma dal nord. Mio marito fa parte del team di emergenza e io non volevo lasciarlo».

Eppure Edna crede ancora nella pace: «Non possiamo perdere la speranza e questa consiste nell’idea che anche dall’altra parte del confine ci sia qualcuno che ci crede ancora – sottolinea – Anche qui c’è chi vuole la guerra, ma noi vogliamo la pace, un accordo e che i nostri ostaggi tornino a casa. Purtroppo abbiamo a che fare con dei terroristi e loro non sono pronti a nessun dialogo». Nonostante sia passato quasi un anno, il ricordo del massacro del 2023 è vivo: «Una delle prime donne massacrate il 7 ottobre era una mia carissima amica, Vivian Silver. Aveva creato “Donne per la pace”, lavoravamo insieme da anni, anche con arabi palestinesi, giordani, libanesi, ebrei. Quello che è successo il 7 ottobre è stato un gesto di malvagità estrema, insania, crudeltà pura, verso di noi, bambini e donne. C’erano ragazzi che ascoltavano la musica, sono stati massacrati. Alcune giovani sono state violentate oltre 40 volte, bambini sono stati inchiodati ai muri. Tutto questo ha scatenato la guerra e questo era l’obiettivo: a un’azione estrema Israele ha reagito in modo estremo», dice Edna.

Come pensare, oggi, a un futuro senza scontri? «È difficile, ma non possiamo rinunciarci. A chi mi chiede se sono d’accordo con la creazione di due Stati per due popoli io rispondo “Magari!” – conclude Edna – Ma dall’altra parte c’è chi vuole la normalizzazione?».

di Eleonora Lorusso

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