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La partitocrazia senza più neanche i partiti

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Nasce, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la Prima Repubblica. E i partiti continuano a essere tali non solo di nome

Partiti

La partitocrazia senza più neanche i partiti

Nasce, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la Prima Repubblica. E i partiti continuano a essere tali non solo di nome

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La partitocrazia senza più neanche i partiti

Nasce, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la Prima Repubblica. E i partiti continuano a essere tali non solo di nome

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C’erano una volta i partiti politici. Il Partito socialista nasce nel 1892; il Partito repubblicano nel 1895; il Partito popolare di Luigi Sturzo nel 1919; il Partito liberale nel 1922, venti giorni prima della Marcia su Roma. Poi il fascismo fa piazza pulita. Nel 1926 la Camera decreta la decadenza dei deputati aventiniani e, già che c’è, anche dei deputati comunisti, che pure non avevano aderito all’Aventino. Dopo il 25 luglio Pietro Badoglio scioglie il Pnf. E quel singolare, per dirla con Giuliano Amato, diventa un plurale: i partiti della cosiddetta esarchia, per l’appunto.

Nasce, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la Prima Repubblica. E i partiti continuano a essere tali non solo di nome. Difatti i vari soggetti politici si definiscono partiti. Ecco i due partiti monarchici, quello di Alfredo Covelli e quello di Achille Lauro; il Partito liberale di Giovanni Malagodi; il Partito repubblicano di Ugo La Malfa; il Partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat; il Partito radicale di Marco Pannella; il Partito socialista di Pietro Nenni; il Partito comunista di Palmiro Togliatti. Tre sole, le eccezioni: il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, Democrazia Proletaria di Mario Capanna e la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, erede del Partito popolare, che però è un partito in tutto e per tutto.

Ma erano anche partiti con ben determinate caratteristiche. Luigi D’Amato pubblicò un libro che ebbe un certo successo. S’intitolava “Correnti di partito e partito di correnti”. I partiti non erano delle caserme. I dibattiti al loro interno erano pane quotidiano. E anche i capi più autorevoli, come quelli appena citati, erano messi in discussione. Per dirne una, il Msi era tutt’altro che una quadrata legione. Almirante doveva vedersela con Augusto De Marsanich, Arturo Michelini, Pino Rauti e, messo in minoranza, fu costretto a battersi nel referendum contro il divorzio assieme a Fanfani, benché fosse di diverso avviso anche per motivi personali. Alla scuola di Alexandre Ledru-Rollin, pure lui avrebbe potuto dire «Sono il vostro capo e vi seguo». E un famoso congresso finì a sediate.

De Gasperi aveva in Giovanni Gronchi la sua mosca tse-tse. La storia socialista è sempre stata quella delle sue scissioni. E, in barba al centralismo democratico, Togliatti aveva alla sua destra Amendola e Napolitano, alla sua sinistra Ingrao. E, gli piacesse o no, doveva mediare.

Con la cosiddetta Seconda Repubblica, tutto cambia. I partiti tradizionali passano per i più svariati motivi a miglior vita. A dritta, il Msi-Destra nazionale cede il posto prima ad Alleanza nazionale di Gianfranco Fini e poi a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. A manca, il Pci crolla con il Muro di Berlino e gli succede prima il Pds, poi i Ds e infine il Pd, l’unico che ha il nome in ditta. E infatti alla Lega di Bossi si aggiungono Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti, Forza Italia di Silvio Berlusconi, il MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Luigi Di Maio (Di Maio chi?) e Giuseppe Conte, Azione di Carlo Calenda, Italia Viva di Matteo Renzi, +Europa di Emma Bonino, Europa verde di Angelo Bonelli, Sinistra italiana di Nicola Fratoianni.

Con Berlusconi nasce il partito personale. Le fortune di una formazione politica dipendono da quelle del leader. Gli slogan sostituiscono i dibattiti. E la democrazia interna lascia a desiderare. Su “la Repubblica” Ilvo Diamanti afferma che da tempo in Italia si è diffusa l’idea che la democrazia non ha bisogno dei partiti. Ma non chiarisce se si riferisce a questi partiti o a quelli di una volta. Scrive che quasi 6 italiani su 10 ritengono che il Paese abbia bisogno dell’uomo forte. Ma poi conclude che il premierato è meno popolare di una volta se è vero che il consenso in pochi mesi è sceso dal 49 al 45%. Ma questi due dati sono in evidente contrasto tra di loro.

Allora, delle due l’una. Il premierato è in fase calante o perché sono i suoi stessi sostenitori a spostarlo di continuo in avanti, fin quasi a farlo scomparire all’orizzonte, o perché si è già affermato di fatto e perciò non c’è bisogno di metterlo all’ordine del giorno. Si direbbe che le riforme costituzionali non piacciano agl’italiani. A meno che… non siano tacite.

di Paolo Armaroli

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