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Parlare senza capirsi, Zelensky da Trump senza interprete (e non solo)

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Se il colloquio fra Zelensky e Trump ha preso una brutta piega è anche perché il presidente ucraino non ha voluto un interprete

Parlare senza capirsi, Zelensky da Trump senza interprete (e non solo)

Se il colloquio fra Zelensky e Trump ha preso una brutta piega è anche perché il presidente ucraino non ha voluto un interprete

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Parlare senza capirsi, Zelensky da Trump senza interprete (e non solo)

Se il colloquio fra Zelensky e Trump ha preso una brutta piega è anche perché il presidente ucraino non ha voluto un interprete

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Nello scontro allo Studio Ovale si è avvertita la regia di Collodi nella versione di Edoardo Bennato. Ricordate? «Quanta fretta, ma dove corri, dove vai? Se ci ascolti per un momento, capirai. Lui è il gatto e io la volpe, siamo in società, di noi ti puoi fidar». Fu così che i due furbacchioni incastrarono Pinocchio-Zelensky. Ma il gatto Vance potrebbe – come nel film – capitare in tangenziale. E la volpe Trump potrebbe finire in pellicceria. Così la pensava Giulio Andreotti guardando Bettino Craxi. Dopotutto, un ingenuo. Perché Indro Montanelli notò che per due volte al banco del governo l’uno versò l’acqua nel bicchiere dell’altro, che se la bevve.

Tuttavia, Zelensky non è esente da colpe. Durante il processo al presidente ucraino, l’ambasciatrice a Washington, Oksana Markarova, si è fatta prendere dallo sconforto. Ha chiuso gli occhi per non scoppiare a piangere. E si è messa la testa tra le mani. I diplomatici dovrebbero essere persone a sangue ghiaccio. Ma di fronte a uno spettacolo indegno, la si può capire. Ha poi detto una cosa che non fa una grinza. Se il colloquio ha preso una brutta piega è anche perché Zelensky non ha voluto un interprete, fidandosi di un inglese che non padroneggia a pieno. Con il risultato che si è posto in una condizione d’inferiorità immediatamente sfruttata dai due compari.

Molti si sono espressi negli stessi termini. Così lo storico ucraino Yaroslav Hrytsak, intervistato dal “Corriere”, ha osservato che Zelensky ha avuto il torto di parlare in inglese, «una lingua che il nostro presidente ha appreso da poco e parla ancora male. Avrebbe dovuto parlare in ucraino. Insomma, tra lui e il suo entourage si sono preparati male all’incontro di Washington».

Elena Loewenthal a sua volta ha rilevato su “La Stampa” che «Zelensky ha scelto di parlare ‘faccia a faccia’ con Trump usando la lingua madre di quest’ultimo. Con ciò si è posto automaticamente in una posizione di debolezza – linguistica, psicologica e politica». Perciò, ha aggiunto, «un interprete professionista sarebbe stato non un intralcio, ma il contrario».

E sul “Riformista” Paolo Guzzanti ha consigliato a Zelensky di tornare da Trump con un interprete, perché «il suo precipitoso inglese da battaglia non gli ha fatto cogliere tutto». Accortosi dell’errore, con Trump finalmente Zelensky parlerà in ucraino ma si avvarrà di un interprete.

Lo stesso errore compiuto da Benito Mussolini con Adolf Hitler. Il Duce teneva ad apparire uomo integrale: tennista, cavallerizzo, schermidore, aviatore e molto altro ancora. E ovviamente si piccava di sapere il tedesco. Lo conosceva, sia chiaro. Ma, come con sottile e perfida ironia ha affermato Corrado Augias, «sembra che lo parlasse meglio di quanto non lo comprendesse». Di qui i patatrac con il dittatore germanico, perché nell’incertezza il Duce annuiva. Con i risultati ben noti.

Nei colloqui con Henry Kissinger, Aldo Moro si avvaleva saggiamente dell’interprete. Ma non è bastata una simile cautela per appianare i dissapori. Nel settembre del 1974 i loro rapporti segnarono il minimo storico. L’allora ministro degli Esteri italiano gli magnificava la strategia dell’attenzione coltivata nei confronti del Pci di un Enrico Berlinguer sostenitore del compromesso storico. Ma se non era zuppa era pan bagnato. Mentre a Kissinger i comunisti non piacevano neppure dipinti, tanto meno nel nostro Belpaese.

E lo scontro fu tale, come ha ben sottolineato Marco Follini sul “Corriere”, che Moro era uscito talmente sconvolto dal bilaterale da rientrare in Italia in anticipo. Follini aggiunge che «al suo rientro fece dire a tutti da Guerzoni che avrebbe abbandonato la politica per qualche anno».

La verità è che lo scontro fu anche di carattere – come dire? – lessicale. Perché il linguaggio di Moro era intraducibile in inglese. E, diciamocela tutta, anche in italiano. Ci siamo abituati a tutto, con una pazienza degna di Giobbe: a un Attilio Piccioni enigmatico, a un Arnaldo Forlani che poteva parlare per ore senza dire niente, a un Tommaso Morlino tanto logorroico quanto inconcludente. Ma di Moro, al pari di Kissinger con tanto d’interprete, non abbiamo mai capito un’acca.

Che brutti scherzi gioca la torre di Babele!

di Paolo Armaroli

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