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It’s up to me and you

“It’s up to me and you”: storia della canzone di Ella Fitgerald per Martin Luther King

Nella canzone “It’s up to me and you”, scritta da Ella Fitgerald il giorno della morte di Martin Luther King, c’è tutta la storia e il dolore dell’America nera umiliata. Una canzone di protesta che finì soffocata dalla stampa dei bianchi.
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“It’s up to me and you”: storia della canzone di Ella Fitgerald per Martin Luther King

Nella canzone “It’s up to me and you”, scritta da Ella Fitgerald il giorno della morte di Martin Luther King, c’è tutta la storia e il dolore dell’America nera umiliata. Una canzone di protesta che finì soffocata dalla stampa dei bianchi.
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“It’s up to me and you”: storia della canzone di Ella Fitgerald per Martin Luther King

Nella canzone “It’s up to me and you”, scritta da Ella Fitgerald il giorno della morte di Martin Luther King, c’è tutta la storia e il dolore dell’America nera umiliata. Una canzone di protesta che finì soffocata dalla stampa dei bianchi.
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Nella canzone “It’s up to me and you”, scritta da Ella Fitgerald il giorno della morte di Martin Luther King, c’è tutta la storia e il dolore dell’America nera umiliata. Una canzone di protesta che finì soffocata dalla stampa dei bianchi.

Era freddo e tormentato, l’aprile del 1968. A marzo, per la prima volta in Italia, c’erano stati spari e feriti tra la polizia e gli studenti a Valle Giulia. Avevo 9 anni e guardavo inebetito il telegiornale senza capire, mi sembravano cose lontane e assurde. Dell’America sapevo pochissimo e solo grazie a papà, che ci era stato e aveva raccontato come l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, nel novembre del 1963, avesse ucciso anche la fiducia di quel popolo in un futuro migliore.

Poi era arrivato quell’aprile e avevano ammazzato Martin Luther King. La televisione mostrava una nazione sconvolta, silenziosa. Robert Kennedy sembrava l’unica ultima speranza – non solo laggiù, ma ovunque, perché papà e nonno mi avevano spiegato che l’America ci aveva aiutati a ricostruire il Paese dopo l’orrore della guerra e del fascismo. In tv Ella Fitzgerald cantava in lacrime e davanti a lei c’era Robert Kennedy con la moglie. Quel dolore non lo capivo, ma lo percepivo bene. Anche perché Ella Fitzgerald, tanto amata dai miei genitori, cantava direttamente al cuore, come un uccellino pieno di gioia, con una voce che solo Mina sapeva imitare. Un’orchestra in una sola persona. E il fratello di John l’avrebbero ammazzato come un cane due mesi dopo.

Ella cantava “It’s up to me and you, una canzone che aveva scritto la notte dell’assassinio di Martin Luther King: «Aveva un sogno meraviglioso in cui credeva, non smetteva mai di sognarlo, ma adesso non c’è più, e tocca a me e a te rendere questo sogno realtà». Una canzone di protesta soffocata dalla stampa dei bianchi, che stava già aprendo agli hippy e alle band come i Buffalo Springfield, alle cantanti come Joan Baez e ai cantautori come Bob Dylan. Tutti bianchi.

Ma Ella era diversa: quasi immobile, con un braccio sul pianoforte e quegli occhiali che le nascondevano le emozioni – la prima, vera, grande cantante di protesta di un’America nera che era stata usata come carne da cannone in tutte le guerre e poi segregata e umiliata al ritorno in patria. Una donna dalla vita difficile, che ha affogato nella musica la sua impossibilità di avere una famiglia e una biografia che non fosse cosparsa di tragedie, abbandoni e della sensazione che, nonostante l’amassero tutti, la stampa dei bianchi la considerasse un clown, come molti dipingevano anche Louis Armstrong.

Quando è morta (lentamente, un pezzo alla volta, distrutta dal diabete) ho capito finalmente che – in un mondo occupato da fanfaroni egotici come Frank Sinatra e ubriaconi molesti come Dean Martin – Ella fosse un’isola di sanità mentale, un’intellettuale schiva e fortemente consapevole politicamente. Troppo tardi. Non sono mai riuscito a vederla dal vivo. Ma ho visto la festa che gli artisti americani le fecero nel 1988, quando non stava più in piedi e le regine del pop e del soul la guardavano piene di umiltà ed entusiasmo.

Poi sono arrivati la fine e i suoi concerti trasmessi dalla tv svizzera. Una sera l’ho vista annunciare la canzone “It’s up to me and you”. Disse che avrebbe dovuto leggerne il testo perché anche dopo tanti anni quella canzone, e la morte che l’aveva provocata, le spaccavano il cuore in due. E io, patetico romanetto ciccione e inutile, ho pianto tutto ciò che potevo e che tanti anni prima non ero stato in grado di piangere.

di Paolo Fusi

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