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Guerra degli alberi Israele

La guerra degli alberi in Israele ha radici profonde

Il deserto del Negev, in Israele, è terreno di scontri tra israeliani e beduini in quella che è stata ribattezzata la guerra degli alberi. Un conflitto “ecologico” di facciata, secondo i nomadi. Intanto una ricerca racconta di un’Amazzonia sempre più rada da quando c’è Bolsonaro.
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La guerra degli alberi in Israele ha radici profonde

Il deserto del Negev, in Israele, è terreno di scontri tra israeliani e beduini in quella che è stata ribattezzata la guerra degli alberi. Un conflitto “ecologico” di facciata, secondo i nomadi. Intanto una ricerca racconta di un’Amazzonia sempre più rada da quando c’è Bolsonaro.
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La guerra degli alberi in Israele ha radici profonde

Il deserto del Negev, in Israele, è terreno di scontri tra israeliani e beduini in quella che è stata ribattezzata la guerra degli alberi. Un conflitto “ecologico” di facciata, secondo i nomadi. Intanto una ricerca racconta di un’Amazzonia sempre più rada da quando c’è Bolsonaro.
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Il deserto del Negev, in Israele, è terreno di scontri tra israeliani e beduini in quella che è stata ribattezzata la guerra degli alberi. Un conflitto “ecologico” di facciata, secondo i nomadi. Intanto una ricerca racconta di un’Amazzonia sempre più rada da quando c’è Bolsonaro.
Deserto del Negev, Israele. Da tempo non solo uno spettacolo della natura ma purtroppo palcoscenico di continui e brutali scontri tra israeliani e beduini. In questo particolare periodo storico, in Israele si assiste a una vera e propria guerra degli alberi: un conflitto che solo superficialmente può essere definito “ecologico” ma che, in realtà, ha radici ben più profonde. Dal giorno della sua fondazione, 14 maggio 1948,  lo Stato di Israele è sempre stato teatro di crisi e conflitti. In questa occasione la Palestina non c’entra. Gli scontri sono tra gli israeliani e i beduini, tribù nomadi o seminomadi dedite da sempre all’allevamento transumante, e riguardano il riconoscimento di alcuni villaggi nel Negev. Senza terra né diritti. Il governo israeliano, infatti, non ha mai riconosciuto alcuni villaggi dei beduini nel deserto del Negev rendendo, di fatto, totalmente inesistenti anche le persone che ci vivono, letteralmente “fuori dal mondo”. Fino ad ora le due realtà non si erano calpestate mai i piedi ma adesso le tensioni sono alle stelle. Colpa di un progetto di imboschimento, dal costo di circa 48 milioni di dollari, stabilito dalla Israel Land Authority, nell’area del Negev che vorrebbe piantare migliaia di alberi proprio nelle aree coltivate dove i beduini portano i propri animali a pascolare. Lo scorso 9 gennaio, i residenti beduini di alcuni villaggi si sono fortemente ribellati alla piantumazione. Gli scontri sono stati molto violenti e si sono “conclusi” (solo apparentemente) con alcuni beduini feriti e successivamente arrestati dalle autorità. Secondo i nomadi dietro al gesto di piantare alberi non si celerebbe un’attenzione ambientale ma un tentativo di allontanare sempre di più le loro comunità da quelle zone che Israele definisce “terre contese”, terre dove i beduini hanno coltivato e costruito le proprie case. Può sembrare un paradosso ma se fosse vera la tesi dei beduini, si arriverebbe a piantare alberi per sradicare un’intera cultura. Perché i beduini, è bene ricordarlo, sono oggi quasi il 3% dell’intera popolazione, circa 250 mila persone, concentrati nel deserto del Negev, alcuni dei quali vivono in quelle aree prima ancora che venisse fondato lo stesso Stato di Israele. In questo caso ad essere deserto non è in realtà il paesaggio, visto che spiccano sorprendentemente tanti alberi ben allineati tra loro, ma il buonsenso e la capacità di dialogo tra il governo e questi nomadi. Si può dire che sia stato fin troppo preso alla lettera David Ben Gurion, primo ministro israeliano della storia, che ai tempi aveva detto: “aggregare un popolo, far fiorire il deserto e costituire uno Stato”. Si sta facendo di più sul fatto (incredibile) di far fiorire il deserto piuttosto che sull’aggregare un popolo. E mentre in Israele si combatte una guerra su quanti alberi piantare, in Brasile, il polmone che fa respirare il mondo intero, la situazione si fa sempre più preoccupante. Stando al rapporto “Dangerous man, dangerous deals” (“Uomo pericoloso, affari pericolosi”) di Greenpeace, la deforestazione, con annesso sfruttamento ambientale, è aumentata del 75% da quando Jair Bolsonaro è stato eletto Presidente, l’1 gennaio 2019. La deforestazione è spinta soprattutto da ragioni economiche: in particolare la coltivazione ed esportazione di soia, allevamenti intensivi e legno. Il report si basa sui dati raccolti dall’Istituto brasiliano di ricerche spaziali (Inpe) ed è sorprendente vedere come gli incendi, spesso appiccati illegalmente solo con lo scopo di favorire un “cambio di uso del suolo” con l’eliminazione della vegetazione autoctona, siano cresciuti del 24% e ci sia stato un +9.5% per quanto riguarda invece le emissioni di gas serra. È il caso di piantarla, nel vero senso della parola.   di Filippo Messina

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